Djamila Ribeiro: «Metti in questione la cultura che consumi»

11 de junho de 2020

By KeMa

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Qualche settimana fa, la mia amica Alessia mi ha interrogata sul valore delle trecce nella storia delle comunità nere. Immediatamente, ci siamo accorte che la vera questione riguardava la nozione di appropriazione culturale, che da qualche tempo ritorna nei dibattiti sulla cultura che consumiamo. Per rimediare alla mia risposta raffazzonata, ho tradotto per lei il capitolo “Questione a cultura que você consome” del libro Pequeno Manual Antirracista di Djamila Ribeiro, pubblicato verso la fine del 2019.

Djamila Ribeiro è una filosofa e giornalista nera brasiliana; nel piccolo libro, risponde in modo consistente a varie delle domande che molti di noi si pongono. Inoltre chiama l’attenzione di tutti su alcuni temi a cui tendiamo a interessarci o per i quali facciamo qualcosa solo quando ci toccano direttamente.

Alessia, la mia amica, mi ha dato il pretesto per tradurre questo testo che, magari, può aiutare anche te a vedere e osservare cose che prima non vedevi.

Metti in questione la cultura che consumi

Djamila Ribeiro, Pequeno Manual Antirracista, pp. 25 – 28.

Ogni volta che tengo una conferenza, che essa sia sul razzismo, sulla diversità oppure sul pensiero di Simone de Beauvoir, qualcuno mi rivolge una domanda sull’appropriazione culturale – più precisamente su l’uso di turbanti da parte di persone non nere. Qualche anno fa, c’è stata una polemica nei social durante la quale una ragazza bianca affermava che un gruppo di donne nere le avrebbero strappato il turbante con la forza. C’è chi non crede che le cose siano andate proprio così, ma siccome la storia è diventata virale nei social, è normale che le persone abbiano dubbi circa il tema.

Prima di tutto, è importante dire che il dibattito sull’appropriazione culturale non deve essere ridotto al poter indossare un turbante o meno. La discussione pertinente è quella che denuncia quanto culture nere e indigene siano state espropriate e appropriate storicamente. Nei processi di colonizzazione, la visione di cultura del colonizzatore è stata imposta, mentre beni culturali venivano saccheggiati. Un esempio sono le collezioni dei principali musei d’Europa, nei quali si trovano oggetti provenienti da diversi paesi africani, asiatici e americani – opere che, senza dubbio, devono significare molto per queste culture. La questione cruciale del dibattito sta nel fatto che l’interesse per la cultura di determinati popoli non cammina di pari passo con il desiderio di restituire a gruppi oppressi la loro umanità. E così, molte persone che consumano cultura nera non si preoccupano di quel che la popolazione nera sta passando nel paese. O ancora, non gliene importa dell’imbianchimento di quelle culture. Come spiega l’antropologo Rodney William:

L’appropriazione culturale non riguarda ciò di cui ci si può o non ci si può servire. Non tratta del se un bianco non può portare un turbante, cantare un samba o praticare capoeira. La questione dell’appropriazione culturale verte su una struttura del potere. C’è, nella società, un potere istituito che fin dai tempi della colonizzazione delega ai dominatori il diritto di definire chi è inferiore in tale struttura e come si può disporre delle sue produzioni culturali e persino del suo corpo.

Un altro punto importante è rendersi conto della misura in cui un elemento culturale viene svuotato di significato. Pertanto, è fondamentale dibattere sul ruolo del capitalismo nella perpetuazione del razzismo. Per esempio, una marca di lusso può fare una collezione di moda ispirata a elementi della cultura nera, però reclutare solo modelle bianche per la sfilata – I capi arrivano al consumatore già svuotati di significato. Di modo che il dibattito deve essere strutturale, non individuale.

È importante avere una preoccupazione reale per il non mancare di rispetto ai simboli di altre culture. Per questo, bisogna nutrire empatia nei confronti dei diversi gruppi che esistono in una società, un processo intellettuale che si costruisce nel corso del tempo e che esige impegno: quando io conosco una cultura, io la rispetto. Quindi è essenziale studiare, ascoltare e informarsi.

Il dibattito sul razzismo si mostra urgente quando parliamo dei media e dell’accesso ai mezzi per produzioni audiovisive. Nel documentario A negação do Brasil (La negazione del Brasile), il regista Joel Zito Araújo analizza l’influenza delle telenovelas sull’immaginario collettivo nazionale, mentre denuncia il razzismo televisivo e il ruolo stereotipato riservato ad attori neri e ad attrici nere.

Risalendo all’esempio del black face – vale a dire quando personaggi neri sono rappresentati da attori bianchi con la faccia dipinta – avvenuto nella novela A cabana do Pai Tomás (La capanna dello zio Tom) del 1969 nella quale l’attore Sérgio Cardoso si dipinge di nero per interpretare il ruolo del protagonista, lo schiavizzato Tomás, il regista presenta un panorama del razzismo nella drammaturgia televisiva brasiliana. Ad esempio nella telenovela A escrava Isaura (La schiava Isaura), una adattamento cinematografico di Gilberto Braga dell’omonimo romanzo di Bernardo Guimaraes (1875), sebbene nel libro il personaggio-titolo sia una donna nera, l’attrice che la interpreta è Lucélia Santos, una donna bianca. Il regista presenta molti casi di razzismo e critica il ruolo subalterno nel quale i personaggi neri sono relegati: al di là della giusta rivendicazione di vedersi rappresentati, si deve mettere in questione anche il modo in cui siamo raffigurati. Spesso, attori neri sono reclutati per recitare nel ruolo di “bandito” o di “ubriacone”, nel caso degli uomini, oppure nel ruolo di domestica o de “il bocconcino” (a gostosa), nel caso delle donne.

Il professore di diritto antidiscriminatorio Adilson Moreira ha identificato gli elementi di quel che egli chiama razzismo ricreativo: un “meccanismo che maschera l’ostilità razziale con l’humor”. Nel libro che ha scritto sul tema, Moreira nomina alcuni stereotipi: Tião Macalé, il “brutto”; Mussum, “l’ubriacone”; Vera Verão, il “il frocio nero”.

Il primo esempio, Tião Macalé, è stato un personaggio della nota trasmissione umoristica Os Trapalhões (Gli Imbranati), interpretato dall’attore nero Augusto Temistocles da Silva Costa. Macalé veniva raffigurato quasi completamente sdentato, posto che l’effetto comico doveva riposare sulla bruttezza del personaggio, secondo Moreira.

In tempi più recenti, Adelaide, personaggio del programma Zorra Total interpretato dall’attore Rodrigo Sant’Anna, seguiva lo stesso modello comico di Macalé. L’attore si metteva nei panni di una donna, si dipingeva la pelle di nero e si metteva una protesi che dava l’impressione che a Adelaide mancassero alcuni denti di davanti. Nei panni della “ nera povera e sdentata”, il tormentone comico del personaggio era “il volto della ricchezza”.

D’altro canto, Mussum, uno dei personaggi televisivi più popolari negli anni ‘80 e ‘90 e che veniva interpretato dall’attore Antônio Carlos Bernardes Gomes, era lo stereotipo dell’ubriacone. Uno degli elementi comici della trasmissione Os Trapalhoes consisteva nel rivolgere battute razziste al personaggio. Secondo Moreira, l’effetto comico di Mussum era un esempio del tipo di humor che mira a dimostrare una presunta superiorità dell’uomo bianco rispetto all’uomo nero, dal momento che i personaggi bianchi venivano raffigurati sobri. Infine, Vera Verão, personaggio interpretato dall’attore Jorge Luis Sousa Lima, era lo stereotipo dell’omosessuale nero dedito alla promiscuità, il quale faceva delle avances molto dirette a uomini che, immancabilmente, lo respingevano.

Sueli Carneiro, quando scrive di Terra Nostra, [telenovela degli anni 1999-2000 che ha riscosso molto successo, risponde agli elogi che sostenevano che la novela stesse contribuendo alla “autostima della comunità italiana”. Nell’articolo “Terra Nostra só para os italianos” (Terra Nostra solo per gli italiani), Sueli rammenta alcuni dialoghi:

Vediamo il piccolo Tiziu lamentarsi della propria sorte ingrata con la frase seguente: “Dio non volle imbianchirmi”. Immagina l’impatto di frasi come questa sull’autostima della comunità nera, specialmente su quella dei bambini neri.

In un altro passaggio, Sueli richiama alla memoria:

Il barone del caffè vaglia con il suo addetto al reclutamento l’impossibilità di dar riparo agli italiani nelle senzala ormai deserte a causa dell’abolizione. Egli dice: “Sono bianchi. Portano nel cuore lo spirito della libertà. Non la accetteranno questa storia di senzala”.

Quindi Sueli conclude :

Considerato che I personaggi neri non sono rilevanti nella trama, la loro presenza e l’immagine negativa che veicolano sono funzionali unicamente per ratificare la presunta superiorità del bianco.

Le frasi evidenziate da Sueli Carneiro riflettono la storia della popolazione nera in Brasile, la quale, dopo secoli di schiavizzazione, ha visto immigranti europei ricevere dallo Stato brasiliano incentivi, tra cui terre, mentre la negritudine formalmente affrancata grazie alla Lei Aurea (Legge d’oro) veniva lasciata ai margini. Gli incentivi agli immigranti rientravano in una politica ufficiale di imbianchimento della popolazione del paese, basata sul credo del razzismo biologico secondo il quale i neri rappresenterebbero l’arretratezza.

Tale prospettiva ha marchiato la storia del Brasile, valorizzando culture europee a discapito della cultura nera, segregando la popolazione nera sotto diverse forme, persino con leggi e con la sterilizzazione forzata di donne nere, una pratica che lo Stato brasiliano ha protratto fino a un passato recente, com’è comprovato dalla CPI della Sterilizzazione del 1992, proposta dalla deputata federale Benedita da Silva che fu un risultato della pressione esercitata da femministe nere negli anni ‘80.

Questi sono alcuni esempi di stereotipi nei quali vengono confinati attori neri e attrici nere e che fanno sì che ci siano poche opzioni di personaggi non segnati da queste violenze simboliche. Laddove attori bianchi e attrici bianche ricevono vaste opportunità di rappresentazione nell’industria audiovisiva, attori neri e attrici nere stanno ancora lottando affinché le parti in cui recitano non feriscano l’umanità delle persone nere. Allo stesso modo, sono ancora pochi I registi, gli sceneggiatori e i produttori neri: come risultante del razzismo strutturale, le opzioni restano scarse.

La situazione non è diversa nelle redazioni giornalistiche. Secondo il Grupo de Estudos Multidisciplinar da Ação Afirmativa (Gemaa, in italiano “Gruppo di studi Multidisciplinari dell’Azione Affermativa), nucleo di ricerche che ha sede nella Uerj (Università dello Stato di Rio de Janeiro), i giornalisti neri delle grandi testate non arrivano neanche al 10 %.

Nel mio caso, quando ho cominciato a scrivere per CartaCapital, commentando film, libri o testi di altre persone, più di una volta qualcuno ha fatto una telefonata furiosa alla redazione dicendo che io non avevo capito quel che l’autore voleva dire. La trovavo una cosa curiosa: era come se il fatto che una persona nera criticasse il lavoro di una persona bianca spezzasse il patto narcisistico. Il razzismo sa quanto potenziale di trasformazione hanno le voci potenti di gruppi che storicamente sono stati ridotti al silenzio.

Quando guardi un film o una telenovela, cerca di riflettere sulla presenza o sull’assenza di attori e attrici nere. Quante persone nere ci stanno recitando? Quali personaggi interpretano? Lo stesso vale per qualsiasi prodotto culturale: quando vai a una mostra, a una festa letteraria, a un dibattito sulla poesia, quando leggi un libro o sfogli una rivista. E, per te che puoi assumere professionisti della cultura o investire in progetti culturali, rifletti su chi scegli per la tua squadra, e su quali temi vengono trattati. Stai facendo la tua parte per contribuire alla lotta antirazzista?

Djamila Ribeiro, Pequeno Manual Antirracista, São Paulo, Companhia das Letras, 2019, pp. 25 – 28.

Tradotto dal portoghese da Manu.

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