“Cose inutili sono la finalità stessa della vita”

29 de outubro de 2020

By KeMa

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Alcune risposte stanno nel luogo dove ti trovi. C’erano già, spesso erano già state scritte, espresse, incise ben prima della tua nascita. Stanno nel luogo dove ti trovi anche se quella domanda specifica quel luogo non l’aveva prevista. Io mi trovavo in Brasile.

Molti di noi sono rimasti (o rimasti bloccati) nel luogo dove la pandemia e il conseguente confinamento li hanno sorpresi. E lo spazio, da un giorno all’altro s’è ridotto a quello dove trascorrevano abitualmente meno tempo : casa, appartamento, stanza.

Quel che abbiamo da fare, quel che ci è rimasto di quel che abbiamo da fare deve essere fatto in quello spazio. Trascorrono i giorni, si susseguono le settimane, che diventano mesi. A volte ci si perde, si perde la nozione del tempo, la percezione che di esso abbiamo risulta troppo plurale, confusa : tempo dilatato, tempo concentrato, tempo svelto, produttivo, tempo improduttivo, tempo sprecato…tempo sprecato.

Tempo sprecato, giornata sprecata, settimana persa in cose vane, che non produrranno niente, non trarranno nessun ritorno, nessun utile. Bisognava studiare, leggere, fare ricerca, scrivere la tesi ; bisognava cercarsi un lavoro (malgrado i pronostici fragili della situazione) ; oppure era necessario essere più efficienti, produttivi ; cercare molta più utilità nelle cose. Non bisognava sprecare tanto tempo.

Più peso questo pensiero acquisisce, più sono propensa a fare qualcosa per contrariarlo: (tornare a) essere produttiva, (tornare a) non passare il tempo in una maniera inutile. E più sono propensa a dare utilmente senso al tempo, più non concludo nulla : i giorni sprecati diventano sempre più egemonici.

Una notte in Brasile mi ritrovo a fare due chiacchiere col mio coinquilino. Egli è comodamente appollaiato sulla sedia girevole in sala, sta facendo videogiochi al computer. È l’una passata, lui sembra preso dal videogioco. Ma mi presta l’orecchio. Ne risulta uno scambio piuttosto banale all’inizio. Ma poi sperimento una curiosità viva di sapere il suo punto di vista. E forse in fondo in fondo è perché non raffreno la tentazione di staccarlo da quel che pare a tutti gli effetti il suo passatempo favorito. Fatto sta che do voce con lui a quel che mi frulla per la testa.

– Sento di star sprecando il tempo, non sto facendo nulla di utile dei giorni né delle settimane. A tutto questo tempo improvvisamente disponibile che è una manna e una piaga allo stesso tempo, non sto dando senso utile. — gli dico nel mio porto-brasiliano che l’isolamento sociale della pandemia ha ben arrugginito.

Mette in pausa il videogioco, posa la console sul tavolo, accanto al computer.

– Ma perché deve per forza avere un senso utile ? – Mi domanda alzando gli occhi e guardandomi dritto in faccia.

Una decina di minuti più tardi, si alza, attraversa la sala. Va a frugare in camera sua. Poi torna in sala. Dopo aver armeggiato con i libelli e i tomi riposti sugli scaffali, torna al tavolo porgendomi un piccolo libro.

– “Cose inutili (o “in-utili”) sono la finalità stessa della vita” – mi dice.

Le chiacchierate con lui vanno così, iniziano con temi ameni e terminano con una qualche nuova scoperta, oppure una comprensione diversa, più profonda di qualcosa.

Quella notte il mio coinquilino, tra lo spazientito e il divertito, mi ha fatto scoprire l’Inutensile di Paulo Leminski (1944 – 1989). Il libro stava su uno degli scaffali della sala. Era sempre stato lì, eppure, in tutti quei mesi, io non lo avevo mai visto.

In questo testo del poeta e pensatore brasiliano, ho trovato una risposta a una domanda che è sorta e s’è fatta sempre più vigorosa durante il mio confinamento trascorso in Brasile. Istintivamente, ho scelto di tradurre il testo, affinché tu, che sei capitato su Manuskritur.com, possa accedere alla risposta di Paulo Lemiski a una domanda che forse ti sarai posto anche tu.

Referenza del testo tradotto che proponiamo oggi: LEMINSKI, Paulo, Ensaios e Anseios Cripticos, Ed. Criar, Curitiba, 1986, p. 58-60.

L’ INUTENSILE

La dittatura dell’utile

La borghesia ha creato un universo nel quale qualsiasi gesto deve essere utile. Tutto deve avere una finalità, da quando i mercanti, con la Rivoluzione Mercantile, Francese e Industriale, hanno rimpiazzato nelle sfere del potere quella nobiltà coltivatrice di in-utili araldici, pompe non redditizie e ostentatorie cerimonie intransitive. Sembrava una cosa da aborigeni. O da negro. Il pragmatismo di impresari, venditori e compratori affibbia un prezzo a qualsiasi cosa. Perché qualsiasi cosa deve dare lucro. Sono, perlomeno, trecento anni che la dittatura dell’utile è pappa e ciccia con il lucrocentrismo di tutta questa nostra civilizzazione. E il principio dell’utile corrompe tutti i settori della vita, facendoci credere che la vita stessa debba dar lucro. Vita è il dono degli dei, per essere assaporata intensamente fino a che la Bomba di neutroni o l’esplosione della centrale nucleare ci separi da questo pezzo di carne pulsante, unico bene di cui abbiamo certezza.

Oltre l’utile

L’amore. L’amicizia. Il convivio. Il giubilo del goal. La festa. L’ebbrezza. La poesia. La ribellione. Gli stati di grazia. La possessione diabolica. La pienezza della carne. L’orgasmo. Queste cose non hanno bisogno né di giustificazione né di spiegazioni.

Tutti noi sappiamo che esse sono la finalità stessa della vita. Le uniche cose grandi e buone che possono darci questo passaggio sulla crosta del terzo pianeta dopo il Sole (qualcuno conosce qualcosa oltre? Lettere alla redazione). Facciamo le cose utili per avere accesso a questi doni assoluti e finali. La lotta del lavoratore per migliori condizioni di vita è, in fondo, lotta per l’accesso a questi beni, brillando oltre gli stretti orizzonti dell’utile, del pratico e del lucro.

Cose inutili (o “in-utili”) sono la finalità stessa della vita. Viviamo in un mondo contro la vita. La vita vera. Che è fatta di giubilo, libertà e fulgore animale.

Centomila anni-luce oltre l’utile, che la mistica immigrante del lavoro coltiva in noi, fiori perversi nel giardino del diavolo, nome che diamo a tutte le forze che ci allontanano dalla nostra felicità , nostra in quanto io o in quanto tribù’.

La poesia è il principio del piacere nell’uso del linguaggio. E i poteri di questo mondo non sopportano il piacere. La società industriale, incentrata sul lavoro servil-meccanico, dagli USA all’URSS, compra, con un salario, il potenziale erotico delle persone in cambio di performance produttive, numericamente calcolabili.

La funzione della poesia è la funzione del piacere nella vita umana. Chiunque voglia che la poesia serva a qualcosa non ama la poesia. Ama qualcosa d’altro. In fondo, l’arte ha un risvolto pratico soltanto nelle sue manifestazioni inferiori, nella diluizione dell’informazione originale. Coloro che esigono contenuto vogliono che la poesia produca un lucro ideologico.

Il lucro della poesia, quando autentica, è il sorgere di nuovi oggetti nel mondo. Oggetti che significhino la nostra capacità di produrre mondi nuovi. Una capacità in-utile. Oltre l’utile.

Esiste nella poesia una politica che non si confonde con la politica che sta nella testa dei politici. una politica più’ complessa, più’ rarefatta, una luce politica ultravioletta oppure infrarossa.Una politica profonda, che è critica della politica stessa, in quanto modo limitato di vedere la vita.

L’indispensabile in-utile

Le persone prive d’immaginazione vogliono sempre che l’arte serva a qualcosa. Servire. Prestare. Il servizio militare. Dar lucro. Non capiscono che l’arte (la poesia è arte) è l’unica chance che l’uomo ha di fare l’esperienza di un mondo della libertà, (ben) oltre la necessità. Le utopie, in fin dei conti, sono, soprattutto, opere d’arte. E le opere d’arte sono ribellioni.

La ribellione è un bene assoluto. La sua manifestazione nel linguaggio la chiamiamo poesia, inestimabile inutensile.Le differenti prose del quotidiano e del/i sistema/i tentano domare la megera.Con la radicale seccatura di una cosa in-utile in un mondo nel quale tutto deve dare lucro e avere un perché.

Per che cosa perché?

A capa do livro

LEMINSKI, Paulo, Ensaios e Anseios Cripticos, Ed. Criar, Curitiba, 1986, p. 58-60.

Traduzione di Manu.

Potrai scoprire altri testi di Paulo Leminski tradotti in italiano qui.

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