Thierry Tomety è un artista togolese noto principalmente per il suo lavoro di artista plastico. Questa conversazione è iniziata nel maggio del 2022 durante la residenza artistica del giovane togolese a Savenay (Francia), sotto forma di messaggi e di note vocali in lingua mina del Togo e in francese su Whatsapp. Thierry Tomety ci racconta il suo percorso artistico e condivide con noi non solo il perché non poteva non fare arte ma anche come concepisce la creazione artistica. Pertanto, il testo seguente è al contempo una trascrizione e una traduzione della nostra lunga conversazione bilingue mina-francese, cadenzata dai nostri movimenti primaverili rispettivi in paesi diversi.
Sono grata a Thierry Tomety stesso per aver individuato alcune trappole nelle mie traduzioni del mina e per avermi aiutata a non tradire o omettere la sua “voce” nel testo.
Grazie a Francesco Avoledo per la sua attenta revisione del testo in italiano.
Conversazione con Thierry Tomety
KA: Innanzitutto, come stai?
TT: Sto bene, grazie a Dio. E tu, come stai?
KA: Senti, ho letto l’articolo che ti avevo richiesto. Leggendolo, non potevo che pensare “Non vedo l’ora di chiacchierare con lui”. Perciò, sto molto bene.
TT: Mi ero ripromesso di trovartene la versione digitale, presto.
KA: Non ti preoccupare, l’ho trovata sul sito del giornale France Ouest. Thierry, come procede il tuo soggiorno in Francia? Qual è il bilancio? E la mostra Materia e Tempo, qual è l’esito?
TT: Il testo introduttivo della mostra condensa bene questa esperienza in Francia. Aspetta, ce l’ho qui.
KA: Ti va di leggercelo?
TT: “Con il passare del tempo, ogni cosa vive”.
KA: Non essere potuta venire alla mostra mi ha stretto il cuore. Hai qualche foto? Foto scattate da te. Questa mostra ha presentato opere che esplorano i colori…
TT: È vero che in questo momento sono affascinato dai colori della natura e sto scandagliando le loro relazioni, il modo in cui si può farli interagire e anche tutte le loro possibili sfumature.
KA: In cosa consiste la tua ricerca ?
TT: Nel mio approccio attuale cerco di mostrare ciò che ho dentro e di incitare le persone a prendersi il tempo di guardarsi attorno e sviluppare la loro sensibilità. Penso sia la definizione più concisa della mia ricerca.
KA: Guardo i tuoi quadri e artefatti della mostra Materia e Tempo e mi fanno pensare a una natura che ha subito il lavorio dell’acqua, una natura che è stata lavorata dall’acqua. Di fatto, la primissima immagine che evocano nella mia testa è quella di un tronco d’albero dove il lichene si è impiantato. Mi ricordo che alle elementari ci insegnavano che la presenza di licheni sulla corteccia di un albero indica che l’albero è in vita, che l’aria è pulita e che l’ambiente è sano.
TT : Allora ho vinto la scommessa! Era proprio questa l’idea sottesa alla mostra.
KA: Vuoi sapere una cosa? Ebbene, rileggo il tuo testo, e la sua sonorità in italiano invade già la mia mente. Non so se è perché mi trovo in Italia in questo momento. Ma mentre lo leggo, lo “sento” in italiano. Perciò deve essere tradotto!
TT: Mi piacerebbe proprio vederne la traduzione e ascoltarlo in italiano. A giudicare dal tono con cui ne parli, dev’essere bello.
KA: Tra l’altro è il momento perfetto per farlo, quindi conta pure su di me.
TT : Conto su di te, perché da cosa nasce cosa…
KA: Thierry, quando per la precisione hai compreso, intimamente compreso, che il tuo gesto essenziale, la tua esperienza e la tua azione nel mondo fossero l’arte? In che momento hai capito che l’arte è esattamente ciò che dovevi fare? Non sono sicura che il verbo “dovere” caschi a fagiolo, però ho sempre avuto l’impressione che per te sia proprio così, che per te l’arte sia qualcosa a cui non potevi resistere, opporti. Dimmi se ho torto.
TT: No, non hai torto. Ho iniziato quasi per caso: avevo voglia di fare dell’arte perché desideravo un hobby. Ma dopo aver iniziato, ho sviluppato una dipendenza. Me ne sono accorto il giorno in cui ero in ufficio e mi sono sorpreso impaziente di tornarmene a casa per poter riprendere la mia arte. Più tardi, ho preso la decisione di consacrarmici professionalmente, perché avevo capito che faceva parte integrante di me. Non potevo farci niente. Attraverso di essa, attraverso l’arte riesco ad ascoltarmi, a esaminarmi, attraverso l’arte riesco a studiarmi.
Ti racconto un aneddoto: è stato un amico di mio fratello maggiore, un amico artista anche lui, che mi ha spinto ad avvicinarmi all’arte quando cercavo un hobby. Mi aveva fornito il materiale e dispensato dei consigli, delle piste. Ma una cosa che mi ha detto mi ha scosso: “Tanto ce l’hai sempre avuta la fibra artistica, tu.” mi ha detto. Ci sono rimasto… dunque era chiaro che avevo da sempre questa sensibilità.
KA: Hai una formazione di informatico. Che combinazione, però! L’informatica e l’arte. Senza menzionare il fatto che hai presentato anche delle fotografie in Materia e Tempo!
TT: In effetti, ben prima che ne diventassi consapevole, l’informatica e l’arte facevano parte integrante del mio essere. L’una e l’altra corrispondono a riflettere e dare vita a delle cose.
KA: E quando hai capito e deciso che il mondo doveva vedere il tuo lavoro artistico? Prima di tutto, si può parlare di una decisione oppure gli eventi si sono semplicemente susseguiti? Hai avuto degli interrogativi, dei dubbi, dei dibattiti tra te e te riguardo al momento di mostrare al mondo la tua arte?
TT: All’epoca della mia prima mostra, ero reduce da alcune esperienze un po’ dolorose. Perciò, quella prima mostra era il mio progetto, il progetto della mia vita. Di fatto, all’epoca ritenevo che già solo quell’unica mostra avrebbe dato senso alla mia esistenza. Dopo averla fatta sarei morto avendo il cuore in pace a prescindere da tutto. Volevo soltanto fare la mostra, mostrare ciò che avevo materializzato. Francamente non mi sono interessato più di tanto a cosa sarebbe potuto succedere dopo. Poi, quando ho annunciato l’evento in preparazione e la comunicazione e la divulgazione dell’evento si sono avviate, una paura grande s’è impadronita di me. Il mio stress è salito alle stelle in un nulla, e una domanda mi attanagliava, sotto varie formule: “Ma che mi ha preso? Cosa me l’ha fatto fare? Ma che cosa sto facendo?”. Poi, continuavo a riflettere: “ non voglio diventare una persona celebre, non mi ci vedo affatto, non è nelle mie corde, quindi cosa mi accingo a fare?!… Insomma, ero teso come non mai.
KA: E come ti sei ripreso?
TT: Ti sto dicendo le cose così come le sento. Sono una persona molto introspettiva e che ha bisogno di essere confortata, spesso. Qualcuno mi ha aiutato a superare quel sentimento di angoscia che mi ha invaso poco prima della mostra. Poi, poco a poco, è svanito. Dopo i miei inizi, c’è stato un momento in cui mi sono posto molte domande e finalmente ho capito come gestire le mie apprensioni, come avere padronanza di me stesso. Da allora, la cosa si è calmata, ho imparato pian piano a padroneggiare i miei stati d’animo. Tant’è che oggi mi sento piuttosto sereno.
KA: A proposito di serenità, c’è quel blu che ho sempre trovato ammaliante nei tuoi quadri. Può sembrare contraddittorio ma quel blu nutre il mio immaginario e placa certi miei stati d’animo.
TT: È una pittura acrilica che ho trovato a Lomé. Il quadro di cui parli, abitato da quel blu, cela così tanti dettagli!
KA: L’artefatto della Bassine, la tecnica con la quale l’hai lavorata dà veramente l’impressione di un oggetto che è rimasto a lungo sott’acqua e che si è fatto popolare dalle alghe. È come se le alghe avessero ricreato questo artefatto da zero.
TT: Vuoi conoscere la storia di questo artefatto? In realtà, è all’origine un recipiente che usavo per lavorare. Ho deciso di includerlo nella mostra come un vestigio archeologico che narra la storia di come sono state realizzate queste opere.
KA: È l’arte che documenta il suo stesso processo di creazione.
TT: Proprio così.
KA: Per molto tempo in Africa – chiaramente, senza generalizzare, fare dell’arte era lungi dall’essere considerato qualcosa che avesse spessore, qualcosa che avesse futuro, qualcosa che aggiungesse valore alla nostra eredità, qualcosa che potesse dare di che vivere. Si parla del Togo, ma se ci spostiamo in Africa australe, la cosa è ugualmente vera. Mélanie de Vales Rafael condivideva la stessa osservazione riguardo il Mozambico. Certo, la percezione e le mentalità sono in mutazione, sebbene il ritmo di tale mutazione non sia molto sostenuto… Ma per caso, l’idea di “accessorietà” dell’arte, ancora piuttosto diffusa in Africa, non ha influito sul sentimento di angoscia che hai provato appena prima della tua mostra di debutto a Lomé e che ti ha spinto a mettere in questione la fondatezza stessa della tua iniziativa?
TT: Ha influito. Poiché sapevo che le persone non avrebbero capito e si sarebbero dette che non era certo qualcosa che sarebbe durato. Penso che persino nel mio entourage stesso alcune persone si siano dette “È una fase, gli passerà”. Fino a che non hanno visto che “il ragazzo sta perseverando, è determinato”. È vero che in Togo, fare dell’arte, soltanto dell’arte, ancora non è visto di buon occhio. A prescindere dall’arte che uno fa, la stragrande maggioranza delle persone rimane dell’avviso che bisogna avere “un vero lavoro”, perché l’arte non dà certezze. Questa è stata, quantomeno, la mia esperienza. Ho perseverato, in modo del tutto naturale, poiché, con il mio vissuto e le mie esperienze traumatiche, l’arte si è rivelata a me come il gesto essenziale attraverso il quale non subivo più la vita ma mi ribellavo contro di essa, mentre davo forma alla mia vita e mi rivelavo al mondo. È in questo senso che l’arte è il mio modo di ribellarmi contro la vita.
KA: Come i visitatori hanno reagito alle mostre che hai fatto a Lomé e ora a Savenay? E tu, cosa ricorderai delle reazioni delle persone?
TT: La mia primissima mostra è stata soprattutto sperimentale. La seconda non ha riscosso un grande entusiasmo, per così dire. Le persone hanno trovato che il mio lavoro non fosse poi così interessante. È il riscontro che più mi ha colpito. Ma alcuni non hanno capito il mio lavoro. Nell’insieme, gli artisti hanno fatto le loro critiche. Per quanto riguarda questa mostra, a Savenay, la maggior parte dei visitatori ha compreso la mia visione, l’ha colta per davvero, e alcuni ancora prima che ne parlassi. La cosa mi ha davvero commosso. Anche se il mio lavoro è piuttosto astratto e attinge da un modo di riflettere che non è sempre accessibile a chiunque, i visitatori hanno compreso. E questo è impagabile.
KA: Il tuo lavoro artistico, come lo collochi nel panorama togolese? E che legami stabilisci tra il tuo lavoro e la tradizione artistica del Togo?
TT: Preferisco saltare queste domande, se non ti dispiace.
KA: No, non mi dispiace. Perché anche una non risposta è una risposta…
TT: Non risponderò a queste due domande ma te ne spiego la ragione. Il fatto è che evito le domande sull’arte togolese o sull’arte africana in senso lato. Ritengo che per rispondervi bisogna essere ben informati e avveduti. Sì tratta di domande che suscitano dibattiti e chiamano in causa il fattore politico. Io sono un sognatore e non voglio politicizzare il mio lavoro. Nel mio processo creativo, mi occorre uno spazio che non sia stato predeterminato da questioni politiche. Non so se mi spiego. Per la mia arte, mi astraggo dal mondo. E non ho voglia che mi ci riportino. So già che queste domande ritorneranno in altre interviste, conversazioni… Mi fa riflettere, il fatto che in questo momento ci sia una difficoltà, una sorta di reticenza che a volte si fa virulenta ad accettare che una persona o un artista dica “non mi va di parlarne”. I miei punti di vista non seguono la movenza collettiva. Sono persuaso che chi deve esprimersi su queste questioni debba essere competente, preparato e avveduto. Ecco.
KA: Ascolta, Thierry, questa tua spiegazione è significativa. È vero: queste due domande vanno di moda. Sono domande a cui sono affezionata, le pongo spesso. Ma la tua spiegazione non va di moda. Proprio per questo, è di un certo interesse. Ha rilevanza proprio per questo. In effetti, il lavoro di molte persone africane si sta politicizzando o viene politicizzato. Si ha quasi il sentimento che ciò sia un obbligo, cioè che politicizzare l’arte stia diventando un imperativo. Tra l’altro questo richiama un dibattito antico: l’arte fine a sé stessa oppure l’arte con finalità politica. Ma tu esprimi qualcosa che va controcorrente: attraverso il tuo lavoro non vuoi stabilire per forza un vincolo con la dimensione politica e la dimensione sociale. Quindi, per come la vedo io, è molto importante che si possa sapere che esistono anche degli artisti africani che la pensano così.
TT: Spero che nessuno rimanga troppo choccato…
KA: Ci si riprende sempre alla fine. Dì un po’: dove sei reperibile e come si può sapere se uno dei tuoi quadri è ancora disponibile?
TT: Sono reperibile via mail: thierrytomety@gmail.com
KA: Che lingue parli, Thierry?
TT: Parlo Ewe – o Mina, come tu preferisci chiamarla -, francese, inglese e un po ‘di Dzerma, che è una lingua del Niger.
KA: Queste lingue che parli, il mina, l’inglese, il francese e lo dzerma, esercitano un impatto sulla tua creatività e sul tuo lavoro artistico?
TT: Penso di sì, l’ewe ha un impatto sul mio lavoro, perché è una lingua da meditare ed è una lingua che permette di conoscere sé stessi. Attraverso la lingua ewe faccio costantemente delle scoperte e riesco a vedere le correlazioni tra i vari aspetti di quel che faccio nel mio lavoro. A volte, l’ewe mi ha svelato il mio lavoro stesso e mi ha permesso di comprendere la mia propria opera.
KA: Questa cosa bisognerà approfondirla! Ma per te questo periodo è fatto soprattutto di movimenti…
TT: In effetti, la mia residenza artistica a Savenay è quasi giunta al suo termine. Prima di ripartire in Togo, ho in previsione qualche breve esplorazione nei paesi confinanti con la Francia. Non dirlo a nessuno [Ride].
TT: E non rimarrai a lungo nemmeno in Togo…
TT: In effetti, la mia prossima residenza artistica s’avvicina. Avrà luogo oltreoceano.
KA: Grazie Thierry, per questa chiacchierata e per la tua disponibilità. Che dire, quando ti metterai in viaggio prossimamente, ti auguro di vivere intensamente. O di lasciarti vivere, di abbandonarti a vivere i luoghi, gli incontri, persino le solitudini, ovunque tu ti trovi straniero. In fin dei conti, sei tu che l’hai detto: “Con il passare del tempo, Ogni cosa vive”.
TT : Akpé.
KA: Msou akpéo, non c’è di che.
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